A Bosco Ficuzza l’ultima passeggiata del colonnello Giuseppe Russo.
Tante storie si possono raccontare di quei volti scolpiti nel muro della legalità di Palermo. È un muro, sì, ma è anche un portale per i cuori e le vite di chi ha combattuto senza tregua contro l’inferno di Cosa Nostra. Tra quei volti c’è anche quello di un uomo dallo sguardo fermo e dallo spirito indomito: il colonnello Giuseppe Russo. Oggi, vi racconto di lui.
Era il 20 agosto del 1977, una sera d’estate come tante, calda e silenziosa, con il cielo che si tingeva di sfumature arancioni a Ficuzza. Il colonnello Russo camminava in piazza, per incontrare il suo amico Filippo Costa. Costa era un insegnante, un uomo onesto che stava aiutando Russo a scrivere un libro sulle sue indagini, a dare voce a verità nascoste e scomode, di quelle che molti preferirebbero sotterrare sotto un manto di paura e omertà.
Ma quella sera, tra i vicoli tranquilli e le famiglie a passeggio, c’era un’ombra che incombeva, nera e letale. Una Fiat 128 si fermò, e ne scesero tre uomini. Erano lì con un solo scopo: chiudere la bocca di Russo. Nessuna pietà, nessuna esitazione. Non importava che intorno ci fossero persone, non importava che ci fosse un insegnante, un uomo semplice e pulito. Spararono con freddezza e precisione, armi alla mano, sicari senza scrupoli. Russo cadde, e con lui cadde anche Costa, colpevole solo di essere un amico.
La figlia di Russo, Francesca Benedetta, aveva solo nove anni quella sera. Era con lui, in villeggiatura, e il colonnello l’aveva riaccompagnata a casa per farla sentire al sicuro. Poi, col cuore leggero, era tornato in piazza. Cosa poteva mai accadergli, si sarà detto. Era un uomo rispettato, temuto, ma amato per la sua integrità. Eppure, proprio lì, sotto gli occhi della sua Sicilia, Russo fu colpito senza pietà.
Russo aveva intuito la metamorfosi di Cosa Nostra, l’aveva sentita come un rumore cupo in lontananza, come un fiume che si ingrossa per la piena. Aveva scoperto che la mafia non era più solo quella dei ricatti e delle vendette locali. Ora puntava più in alto, verso i grandi appalti, come quello della diga Garcia, vicino a Roccamena, e gli stupefacenti che passavano di mano in mano, facendo girare milioni. La mafia diventava una macchina internazionale, senza freni, senza confini. E Russo era lì a guardarla dritta negli occhi, a studiarla, a denunciarla.
Ma il destino di uomini come Russo è spesso crudele. Il suo lavoro lo aveva portato a indagare persino sugli omicidi di Peppino Impastato e di Enrico Mattei, grandi uomini, vite spezzate per troppo coraggio e troppa onestà. Forse Russo sapeva di camminare su una linea pericolosa, ma non si è mai tirato indietro, perché la sua era una vocazione: lottare contro la paura e la corruzione, difendere la giustizia.
La mattina dopo la sua morte, il giornalista Mario Francese scrisse che quella fu “un’esecuzione spettacolare ed esemplare”. Russo cadde sotto i colpi di tre sicari. Sapevano cosa stavano facendo, e lo fecero bene. Tranne uno, che traballò, quasi fosse preso da un raptus. Fu lui a dare il colpo di grazia. Volevano che fosse finita per sempre, senza possibilità di riscatto. Anche Costa, il mite professore, fu colpito. Il mandante? I capi della mafia siciliana, Totò Riina e Bernardo Provenzano. E a premere il grilletto furono mani spietate come quelle di Leoluca Bagarella, Pino Greco, Giovanni Brusca e Vincenzo Puccio.
Oggi, il nome di Filippo Costa non è inciso lì, su quel muro, ma viene ricordato, insieme alle oltre 1000 vittime innocenti delle mafie ogni anno in occasione del 21 marzo, la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.
La storia del colonnello Giuseppe Russo nato a Cosenza il 6 gennaio del 1928 e morto a Ficuzza (Palermo) il 20 agosto 1977, si può conoscere leggendo il libro scritto da chi lo ha conosciuto bene Francesca Benedetta Russo sua figlia dal “Ma il mio destino è vivere balenando in burrasca. Storia di un’antica Signora,