Nel silenzio di via D’Amelio la scia del tritolo
Sono passati cinquantasette giorni da Capaci. Cinquantasette. E mentre Palermo e l’Italia tutta cercavano di rialzarsi, ecco un altro boato, un altro colpo al cuore. Via D’Amelio, sotto casa della madre di Paolo Borsellino. È lì che si è consumata un’altra tragedia. Paolo e gli uomini della sua scorta sono stati annientati da un’esplosione.
A poche centinaia di metri da via Aragonesi dove stiamo contemplando il Muro della Legalità, si erge il Palazzo di Giustizia. Ogni volta che passo davanti a quel simbolo della legalità, non posso fare a meno di immaginare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Me li vedo lì, curvi dietro scrivanie sommerse da faldoni e carpette. Ogni foglio, ogni documento, una scheggia di quella guerra senza tregua.
Mi chiedo quante volte li avrò incrociati, senza saperlo, mentre andavo al mercato del Capo. Forse li ho superati per strada, due uomini immersi nei pensieri, custodi di un mondo che stava per esplodere.
Paolo Borsellino.
Nato a Palermo, in via della Vetriera, il 19 gennaio 1940, in una casa che profumava di farmacia: quella della sua famiglia. Nel 1962 si laurea in giurisprudenza con lode all’Università di Palermo. Appena un anno dopo, nel 1963, supera il concorso in magistratura, diventando il magistrato più giovane d’Italia.
Nel 1983, dopo l’omicidio di Rocco Chinnici, l’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo passa nelle mani di Antonino Caponnetto. È Caponnetto a creare il pool antimafia, un’idea rivoluzionaria: magistrati che lavorano insieme, condividono informazioni, si proteggono l’un l’altro. Al fianco di Caponnetto, ci sono Borsellino, Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.
Grazie a loro si ottengono i primi, fondamentali risultati: misure di custodia contro personaggi come Vito Ciancimino, le prime dichiarazioni di collaboratori di giustizia come Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno. Sono i tasselli iniziali del maxiprocesso, la pietra miliare della lotta alla mafia.
Nel dicembre 1986, Paolo viene nominato Procuratore della Repubblica a Marsala. Nel 1992, torna a Palermo come Procuratore aggiunto, dopo che Caponnetto si è congedato e Falcone è stato trasferito a Roma. Borsellino riprende il filo della battaglia contro la mafia, ma il clima è pesante, velenoso. Lo sappiamo adesso, lo sapevano anche loro.
E così arriviamo a quel 19 luglio 1992.
Paolo si alza, saluta, raccoglie le sue cose: la borsa di pelle, le sigarette, il costume per il mare, e la sua agenda rossa. Si dirige in via D’Amelio, per prendere la mamma. La telefonata, che annuncia l’incontro, è intercettata. La scorta lo accompagna. Il tragitto, che dura normalmente trentacinque minuti, quella volta ne richiede ventotto.
Ore 16:58 e venti secondi.
Paolo suona al citofono. L’inferno esplode. La Fiat 126 rossa imbottita di 90 chilogrammi di esplosivo riduce tutto in cenere. Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Walter Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano.
Oggi, al civico 21 di via D’Amelio, c’è un ulivo. Lo ha voluto la madre di Paolo, al posto del cratere. Ogni anno, il 19 luglio, si tengono manifestazioni in quel luogo per ricordare. Ma non è solo un giorno: tutto l’anno, uomini, donne e bambini passano davanti a quell’albero per rendere omaggio. Sul muro perimetrale, una scritta accoglie tutti: “Paolo vive.”
C’è anche il volto di Paolo Borsellino, scolpito nel muro della legalità da Giovanni Messina. Accanto, una rappresentazione della sua agenda rossa. Lì, incisa per sempre, una frase che brucia: “Qualcuno ha voluto che non si trovasse mai.” L’agenda scomparsa nell’inferno di via D’Amelio conteneva i pensieri più intimi, le riflessioni più scottanti del magistrato.
Quella verità fa paura, ancora oggi. Eppure, ogni volta che vedo quell’ulivo, penso: Paolo vive davvero.