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“Storie sotto l’arco”. Don Gaetano e la bella Cosimina: memorie di Via Porta Carini

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Storie di vita e memoria nel cuore del Capo

Nel cuore pulsante del quartiere Capo, a Palermo, c’è un angolo nascosto che custodisce due storie intrecciate nel tempo, incise non solo sui muri, ma nei ricordi di chi ha vissuto e amato questi vicoli. In Via Porta Carini, proprio al civico 70, un vicoletto si apre da una piccola arcata: qui, ignoti — forse abitanti, forse passanti riconoscenti — hanno lasciato un tributo silenzioso ma potente alla memoria di due figure che, in modi molto diversi, hanno segnato la vita di questo luogo.

Uno di questi graffiti, inciso sotto l’arco come una lapide non ufficiale, recita:

“In questa casa visse Don Gaetano Vitale, che a tanti fanciulli diede vita con la vendita del suo latte d’asina.”

Don Gaetano Vitale, nato nel 1880 e scomparso nel 1952, era un uomo semplice, ma la sua presenza nel quartiere fu determinante. Possedeva qualcosa che all’epoca era raro e prezioso: un’asina. E con lei, produceva latte — quel latte d’asina che, per le sue proprietà simili a quello materno, rappresentava per molti bambini un’unica possibilità di nutrimento e sopravvivenza. Durante gli anni bui della Seconda Guerra Mondiale, quando tutto scarseggiava e il mercato nero divorava ogni cosa, Don Gaetano faceva esattamente il contrario: offriva quel latte a prezzo accessibile, a volte persino gratuitamente, pur di aiutare le famiglie del quartiere.

Si racconta che, anni dopo la fine della guerra, uno di quei bambini ormai cresciuto, emigrato in America in cerca di fortuna, tornò a Palermo con il desiderio di ritrovare il suo benefattore per ringraziarlo. Ma era troppo tardi. Don Gaetano era morto da tempo. Così, con dolore e gratitudine, quell’uomo prese un pennello e scrisse di suo pugno quell’epigrafe sotto l’arco: un gesto d’amore che ha resistito agli anni, al tempo e all’indifferenza.

Ma non è l’unico segno lasciato in quel cortile.

Poco distante, sempre all’interno dello stesso civico, un’altra scritta compare sopra una porticina consumata dal tempo. In vernice, spiccano poche parole:

“Casa fu della bella Cosimina Scimone.”

Cosimina visse lì tra gli anni ’30 e ’40. Era una donna bellissima, tanto che la sua fama aveva varcato i confini del quartiere. Giovani e meno giovani passavano davanti alla sua casa nella speranza di vederla affacciarsi, anche solo per un istante. Ma Cosimina era diversa: bella sì, ma riservata, fiera e austera. Non cedette mai ai corteggiamenti, conservando una dignità e un’eleganza che lasciavano a bocca asciutta più di un pretendente. Di lei non si ricordano amori turbolenti né scandali, solo una presenza luminosa e intoccabile, come un piccolo mito popolare. Quella frase rossa, lasciata anch’essa da mano ignota, sembra voler fermare nel tempo una bellezza che non fu solo esteriore, ma anche morale.

Nel silenzio di quel cortile, oggi abitato da nuove vite e nuovi sogni, resistono queste due storie, una accanto all’altra: quella di un uomo che salvò i bambini con un gesto semplice ma vitale, e quella di una donna che fece battere i cuori solo con la sua presenza. Entrambi, oggi, vivono nel respiro dei muri, nei graffiti, nei racconti sussurrati tra le pietre.

Per chi passa distratto, è solo un arco qualunque.
Per chi si ferma e guarda, è un piccolo miracolo di memoria.

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Salvino Arena

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