Sebastiano Camarrone, figlio dello “zu Vicè”, condivideva con il padre l’attività di pizzicagnolo in un banco sotto casa, situato nel mercato Capo. La sua storia è strettamente legata alla rivolta della Gancia, un significativo episodio del Risorgimento italiano, inserito nei moti che agitarono la Sicilia nel 1860, preludio alla spedizione dei Mille.
Il 4 aprile 1860, un gruppo di uomini guidato dal mastro fontaniere Francesco Riso, partendo da un magazzino nel convento della Gancia, diede avvio all’insurrezione palermitana. Questo evento fu determinante nel convincere Giuseppe Garibaldi a organizzare la spedizione in Sicilia. La ribellione fu orchestrata da artigiani e popolani facenti parte della minoranza democratica del Comitato Rivoluzionario palermitano.
La sera del 3 aprile, la polizia arrestò due dei rivoltosi, Gioacchino Muratore e Alessandro Urbano, i quali fornirono tutti i dettagli della rivolta sotto interrogatorio. Le guardie borboniche, venute a conoscenza dei piani dei rivoltosi, si prepararono per un conflitto a fuoco, cogliendo i ribelli impreparati. Della sessantina di insorti, molti persero la vita, 13 furono arrestati e soltanto 2 riuscirono a fuggire.
Tra i tredici arrestati figurava Sebastiano Camarrone, il pizzicagnolo del Capo. La loro sorte fu segnata dal verdetto di fucilazione.
Va sottolineato che l’esecuzione avvenne con il 3° grado di pubblico esempio, una pratica esemplare ormai superata. I condannati furono condotti a piedi nudi al luogo dell’esecuzione, vestiti con una tunica nera, un velo nero a coprire il volto e un cartello sulle spalle indicante il motivo della condanna. In ginocchio, con le spalle rivolte al plotone di esecuzione composto da tre file di tredici soldati, la prima fila sparò e si ritirò dietro la terza, seguita dalla seconda fila.
Sebastiano Camarrone, trentenne, rimase illeso dopo due raffiche, ma contrariamente alle leggi di guerra dell’epoca, ciò non gli garantì la salvezza. Gli ufficiali borbonici gli strapparono un crocifisso e un sacchettino con oggetti religiosi dal collo e, ordinando alla terza fila di sparare, completarono l’eccidio.
Una lapide nel palazzo al primo piano, affacciato sulla via Porta Carini, commemora Sebastiano Camarrone, testimone tragico di quei momenti tumultuosi del Risorgimento.
Ecco la storia di Camarrone raccontata in siciliano da Salvatore Arena
SOGNO DI LIBERTA’ (Storia di Sebastiano Camarrone) di Salvatore Arena
Da putia di so patri nun si putieva lamintari
i vuscava i picciuli pi putiri campari.
Sebastianu, u pizzicagnolo du Capu
era un picciottu chi nun putieva finiri
pi iddu e pa povira genti sognava
un diversu avveniri.
Certuni amici ci avevanu
pruspittatu una soluzioni
chiamata rivoluzioni.
I rivoltosi eranu poveri sprovveduti
e vinniru accerchiati, chiddi chi nun
murieru ammazzati vinniri arristati
e prucissati primi di essiri giustiziati.
A pieri ntierra e bendati nto chianu
furunu purtati pi essiri fucilati.
A siecutu di dui esecuzioni
u pizzicagnolo du Capu ancora
a l’avatru munnu nun si avia prisintatu
faciennu u cucchiareddu comu un picciriddu
ci partieva malucumminatu
ma ancora vivu sugnu io,
dati a libertà a stu puvireddu.
Ma u fierru nemicu cu n’avutri cuolpi
a trentanni ci livò a vita.
Arena Salvatore
TRADUZIONE
SOGNO DI LIBERTA’
Della bottega di suo padre non si poteva lamentarsi
guadagnava i soldi per poter campare
Sebastiano, il pizzicagnolo del Capo
era un ragazzo prestante
per lui e per la gente povera sognava
un diverso avvenire
Alcuni amici gli avevano prospettato una soluzione
chiamata rivoluzione
I rivoltosi erano poveri sprovveduti
E furono accerchiati, quelli che non
morirono ammazzati vennero arrestati
e processati prima di essere giustiziati
a piedi scazi e bendati vennero portati in un piazzale
per essere fucilati
Dopo due esecuzioni il pizzicagnolo del Capo
all’altro mondo ancora non si era presentato
facendo il cucchiaino* come un bambino
ripeteva si malconcio
ma ancora vivo sono io
congedete la libertà a questo povero uomo
ma il ferro nemico con altri colpi
a trentanni gli tolse la vita
*Fare il “CUCCHIAREDDU” è quell’espressione facciale di quando, solitamente i bambini, sono in procinto di scoppiare a piangere.
Quando i bambini piangono formano a livello del mento una specie di cavità a forma di cucchiaio.
Infatti cucchiareddu vuol dire proprio cucchiaio.
Foto: Obelisco a Piazza Tredici vittime. luogo narrato nella poesia di Salvatore Arena.