Nell’estate del 1799 approda nel porto di Palermo, la flotta turca. Il barone Miccichè, affascinato dalla bellezza delle navi dell’Ammiraglio, volle invitare per il pranzo nel suo palazzo Comitini, ossia il suo palazzo di città, sito in via Maqueda, l’Ammiraglio turco con gli alti ufficiali. Dopo i convenevoli di rito e le presentazioni di tutta la famiglia, gli ospiti e invitati, passarono nel grande salone per il banchetto. Mentre i commensali, mangiavano e bevevano di gusto, nel salone arrivo l’eco di grida di aiuto, provenienti, dagli appartamenti interni del palazzo. Dopo pochi secondi di sbigottimento, quasi tutti i commensali si levarono dalla tavola, per accorrere verso la camera, da dove provenivano le grida. Giunti, nella stanza, che era adibita alla servitù, sorpresero un marinaio turco al seguito dell’Ammiraglio che cercava di usare violenza a una giovane serva di casa Miccichè, che non godendo di ottima salute, quel giorno era stata lasciata a riposo. La scena agli occhi dei soccorritori, apparve, con connotati tragico-comici, con la povera serva che si dimenava e urlava e il marinaio turco assalito da un moto di libidine, che non voleva mollare la preda. Ci vollero, quattro robusti servi per far desistere l’energumeno dal suo proposito. Condotto nel cortile del palazzo fu punito dai marinai turchi, di scorta all’Ammiraglio, con dieci vergate, sulla pianta dei piedi. Mortificato per l’accaduto l’Ammiraglio turco presentò le proprie scuse e si congedò insieme al suo seguito. L’incidente sembrava chiuso senza che avesse lasciato spazio a ulteriori strascichi. Ma il giorno dopo, a Palermo, successe il finimondo. Nel primo pomeriggio alcuni marinai turchi, in libera uscita, fecero irruzione con armi in pugno nella bottega di un calzolaio, sita nella strada di Mezzomonreale; e mentre un paio di loro tenevano a bada i garzoni, con la minaccia delle armi, gli altri afferrarono la moglie del padrone della bottega cercando di violentarla. I garzoni per nulla intimoriti, reagirono gettandosi sopra i marinai turchi, menando colpi di trincetto e di martello. Sorpresi, da tanta furibonda reazione, i marinai turchi, sanguinanti e malconci, cercavano salvezza nella fuga. La notizie dell’aggressione si diffuse rapidamente in tutto il quartiere dopo pochi minuti. Il popolo palermitano si rivoltò contro i turchi, sicché dove si trovavano marinai turchi, questi venivano assaliti senza capire il motivo. In pochi minuti la città fu i allarme, era incominciata la caccia ai turchi. Dalla finestre e dai balconi dalle case, cominciarono a piovere, sulle teste dei malcapitati marinai ottomani ogni genere di cose, vasi di fiori, sassi e anche qualche sedia. Mentre per le strade e nei vicoli, colpi di armi da fuoco abbattevano decine e decine di turchi. Ormai era una vera caccia al “turco”. Per gli angoli delle strade, si sentivano le voci dei ragazzi, che alla vista dei marinai stranieri gridavano “MAMMA LI TURCHI” come per dire ammazziamoli. Il massacro si prolungò fino a sera. Finché anche l’ultimo dei trecento marinai turchi fu massacrato.
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Salvino Arena
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