Peppino Impastato da cento passi a un cammino infinito
Il nostro viaggio tra mura e memorie, ci porta dritti a Cinisi, Sicilia, terra di sole, arance mucche pregiate e ombre nere. Girando l’angolo di piazza degli Aragonesi sul muro della legalità spicca Peppino Impastato, un giovane che con lo sguardo che trapassa la pietra. L’ha fatto Jole Spasari, l’artista, giuro che sembra vivo. Questo è un ricordo scolpito nella nostra coscienza, più che un dipinto.
Ma chi era questo Peppino? uno che non si piegava, neanche di fronte alla sua famiglia, che aveva il puzzo della mafia fino al midollo. Suo padre, Luigi, aveva amici pericolosi e un cognato, Cesare Manzella, che faceva saltare in aria i nemici e con la Giuliette imbottita di tritolo saltò lui. Peppino, ancora ragazzino, vede quella violenza, ne respira il tanfo e dice basta. Una rottura netta, tanto che il padre lo caccia via. E lui? Testardo come un mulo, comincia a dare fastidio a chi comanda.
Pensateci: era il 1965 quando fonda L’Idea Socialista. Già lì si capiva dove voleva andare a parare. Scriveva contro i soprusi, contro chi espropriava i contadini per costruire un aeroporto che puzzava di mafioso lontano un miglio. Poi arriva il 1976, e con Radio Aut fa ancora di più: prende un microfono e una risata per svergognare i boss locali, primo fra tutti Gaetano Badalamenti, quello che abitava a cento passi da casa sua. Sì, cento passi, li potevi contare. Ecco perché quel film, I Cento Passi, ci ricorda quanto il male sia vicino. Lo sappiamo, ma spesso ci giriamo dall’altra parte.
Ma Peppino no. Lui rideva in faccia alla mafia, con intelligenza e sarcasmo. Una risata che però gli costa cara. Arriva quella maledetta notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978. Lo prendono, lo picchiano e lo portano sui binari della ferrovia. Una carica di tritolo, ed è tutto finito. O almeno così credevano loro. Perché, vedete, il 9 maggio è anche il giorno in cui trovano Aldo Moro morto, e le televisioni, i giornali, tutti sono presi da quell’orrore. Di Peppino non parla nessuno. Ma la sua storia, amici miei, non poteva restare sepolta.
Sua madre, Felicia, e suo fratello Giovanni, con una forza che solo una madre e un fratello possono avere, si mettono in testa di trovare giustizia. Ventidue anni ci sono voluti per condannare Badalamenti. E sapete cosa ha fatto Felicia in aula? Ha puntato il dito contro quel boss e con voce ferma gli ha detto: Tu hai fatto uccidere mio figlio. Io non c’ero, ma vi giuro che lo sento ancora quel dito puntato, come una freccia che squarcia l’omertà.
E ora, su quel muro della legalità, Peppino ci guarda. Non è un’immagine triste, sapete? È piena di forza, di speranza. È come se dicesse: Continuate voi, perché la mafia può essere battuta. Casa Badalamenti, oggi, è diventata un luogo di memoria. Non è più la tana del lupo, ma il cuore di una lotta che non finisce.
E io, Ruggero, vi lascio con una domanda: quanti passi siete pronti a fare per la giustizia? Magari cento, magari mille. Ma vi garantisco che vale la pena camminare.