Rita Atria, la ribelle siciliana, perché ha avuto il coraggio di denunciare la mafia.
Rita era nata in provincia di Trapani, a Partanna, il 4 settembre 1974 e visse la sua giovinezza all’interno di un contesto mafioso.
Ad appena diciassette anni decide infatti di raccontare al giudice Paolo Borsellino tutto quello che sa sulla mafia che orbita attorno alla sua famiglia e al suo paese per vendicare così l’assassinio del padre e del fratello.
Paolo Borsellino per lei sarà come un padre, la proteggerà, la sosterrà nella ricerca di giustizia e tenterà anche qualche approccio
per farla riappacificare con la madre che non aveva voluto accettare una figlia “pentita”.
Diventata testimone di giustizia vive da clandestina e il suo unico conforto è appunto il giudice.
La “picciridda”, così lui la chiamava, una settimana dopo la strage di via D’Amelio però si sentì sola, forse abbandonata, e, dopo che Paolo aveva riacceso una luce lungo il suo cammino, decise di spegnerla definitivamente.
La ragazzina siciliana vive a Roma sotto falso nome, per mesi e mesi non vedrà nessuno, e soprattutto non vedrà mai più sua madre. Ma una calda domenica dell’estate del ’92 il suo cuore gelò: avevano ammazzato Paolo e Rita, a soli 17 anni, non ce la fa ad andare avanti.
Una settimana dopo si toglie tristemente la vita gettandosi dal settimo piano di un palazzo in viale Amelia 23, a Roma. È il 26 luglio 1992.
Lasciò scritto sul suo diario:
“Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita.”
La ribelle siciliana, così vogliamo ricordare Rita Atria: una ragazza, anzi una donna, che nascendo in un contesto mafioso non si arrese a ciò ma decise, e lo fece, di combatterlo.
Vogliamo ricordarla così oggi che è proprio l’anniversario di quel 26 luglio, vogliamo ricordarla così sempre.