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La Calata dei Giudici: Storia e Trasformazioni di un Antico Percorso Palermitano

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La  strada che da piazza Bellini porta nella via Roma ha un nome che suscita curiosità stiamo parlando della  Discesa Dei giudici.

Originariamente denominata “Calata dei Giudici”, questa strada traccia la sua denominazione dai Giudici della Corte Pretoriana, che un tempo dimoravano nel monastero di S. Caterina. La Corte, guidata dal pretore (antecedentemente chiamato baiulo, corrispondente all’attuale sindaco) nelle cause civili e da un giustiziere nelle cause penali, vide i suoi giudici eletti personalmente dal re, su raccomandazione del viceré. Essi dovevano essere nativi di Palermo e il loro mandato durava un anno.

 

Nei secoli XIII e XIV, i giudici si radunavano presso S. Maria dell’Ammiraglio, nell’atrio della chiesa. Successivamente, a partire dal 1550, la Corte cominciò a tenere le sue sedute nel nuovo palazzo comunale, finché nel 1636 fu definitivamente trasferita in un edificio (ora scomparso) situato all’angolo tra via Maqueda e piazza Bellini, che in precedenza ospitava l’Accademia dei Cavalieri. Nel 1816, la Corte fu definitivamente soppressa, segnando la fine di un’importante istituzione giudiziaria.

 

La storia della Calata dei Giudici offre uno sguardo affascinante sullo sviluppo e le trasformazioni della giustizia a Palermo nel corso dei secoli, riflettendo il passaggio dalla congregazione in chiese storiche alla formalizzazione in nuovi palazzi comunali. Oggi, la strada conserva le tracce del suo ricco passato, testimoniando un’epoca in cui giudici erano chiamati a prendere decisioni cruciali per la giustizia nella città.

 

In una leggenda tramandata nel tempo, si narra che il cambiamento del toponimo di questa via sia stato motivato da un’ingiustizia perpetrata da alcuni giudici. Il protagonista di questa storia è un bambino, figlio di un uomo molto ricco, rimasto improvvisamente orfano e affidato a un abate che aveva un oscuro intento: privare il bambino della sua eredità.

 

Inizialmente, la cura del piccolo fu affidata a una nutrice. Tuttavia, una volta che l’abate riuscì a impossessarsi del patrimonio del ragazzo, la donna smise di essere retribuita. Nonostante ciò, spinta dalla pietà e dall’affetto per il bambino, decise di crescerlo insieme ai propri figli, dovendo però affrontare una difficile situazione economica.

 

Con il passare degli anni, il giovane, divenuto adulto, si dedicò a lavorare per un maestro chiavettiere, al quale confidò la sua travagliata storia. Mosso dalla compassione, il chiavettiere decise di agire e coinvolse le autorità per ottenere giustizia e punire l’abate.

Nonostante la grande ricchezza dell’abate, questi riuscì a corrompere i giudici e ottenne l’assoluzione. Il maestro chiavettiere, però, non si arrese e fece appello direttamente a Carlo V, l’imperatore, il quale si interessò profondamente alla vicenda del giovane. Travestitosi e recandosi incognito a Palermo, l’imperatore emanò un ordine diretto ai giudici: vennero legati alle corse dei cavalli e trascinati lungo la strada che oggi porta il nome di Discesa dei Giudici.

 

L’imperatore aveva deciso che la punizione inflitta doveva non solo rappresentare una forma di castigo, ma anche un atto di umiliazione. Quando i giudici emettevano una condanna, questa includeva spesso l’esposizione pubblica del condannato nella centralissima Piazza Quattro Canti. In questo contesto, il condannato veniva vincolato e costretto a salire dalla sede del tribunale fino ai Quattro Canti.

Al contrario, quando l’imperatore aveva deciso di punire i giudici stessi, il percorso da essi compiuto era inverso e particolarmente umiliante. In questo caso, anziché salire, i giudici umiliati dovevano scendere dalla sede del tribunale fino a raggiungere i Quattro Canti.

 

In precedenza, tale via era nota come Calata dei Giudici, in omaggio ai giudici della Corte pretoriana ospitati nel monastero di Santa Caterina. Solo dopo l’orribile errore giudiziario, il nome della via fu cambiato in Discesa dei Giudici, in ricordo di quel tragico episodio.

 

La leggenda racconta inoltre che, oltre al crudele destino dei corpi dei giudici, le loro pelli furono utilizzate come fodere per tappezzare le poltrone dei loro successori, come un memento di un giudizio implacabile.

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